Il mal di denti nella storia

02.11.2013 18:55

di LORENZO DUCHI  "DEL MAL DI DENTI E DEI SUOI RIMEDI NELL'ETÀ ANTICA"

 

In dentium autem dolore, qui ipse quoque maximis tormentis annumerari potest, vinum ex toto circumcidendum est.

Con tale affermazione perentoria Aulo Cornelio Celso inizia il nono capitolo del sesto libro del De Medicina, dedicato appunto al dolore dei denti. Ed è curioso notare come, a differenza dei capitoli precedenti e successivi del libro sesto, egli si concentri subito ed esclusivamente sul sintomo, e immediatamente ne proponga dei rimedi, piuttosto che sulla descrizione delle cause, come invece fa per le altre affezioni del capo. Ma in quel maximis tormentis Celso raccoglie efficacemente l'esperienza secolare, o meglio millenaria, della specie umana nei confronti del dolore dentale. E quasi a voler sottolineare immediatamente l'urgenza di stroncarlo, ecco subito una informazione preziosa quanto assoluta: togliere di mezzo il vino! Sembra evidente che una tale affermazione non possa che derivare dall'esperienza, anche se Celso non ne discute affatto. Ma le nostre conoscenze sul vino dei Romani, una bevanda che poco ha a che fare con la nostra, possono spiegarla: il vino di Celso era una specie di mosto denso e aspro, che per essere bevuto andava diluito, e probabilmente possedeva un alto tenore zuccherino, quando addirittura non veniva mescolato con miele, a formare quella miscela (mulsum), offerta alla fine di sontuosi banchetti ai sazi commensali. L'azione degli zuccheri ha effetti deleteri sulla polpa dentaria infiammata per processi cariosi, ben lo sanno i nostri piccoli pazienti! E dunque il consiglio di Celso è un buon consiglio, anche se probabilmente tardivo. Ho volutamente sottolineato questo aspetto perché, nella trattazione che segue, riporto diversi suggerimenti e ricette contro il mal di denti contenuti nelle farmacopee degli antichi popoli mediterranei. Anche se la maggior parte di esse appaiono ai nostri occhi quanto meno fantasiose, se non aberranti, alcune contengono elementi di una qualche utilità, maturata da esperienze di generazioni sofferenti.

 

La malattia dentale

Carie e parodontopatie sono antiche quanto la specie umana, se non di più. Ma gli archeologi e gli antropologi sono sufficientemente concordi nell'affermare che da circa diecimila anni, da quando cioè l'uomo moderno ha iniziato a nutrirsi di cereali, l'incidenza della carie tende ad aumentare con il miglioramento dell'alimentazione. La carie dentale non solo è un indicatore evolutivo, ma anche sociale, in quanto nelle varie epoche antiche la si ritrova più frequente nelle classi più agiate, testimone di possibilità alimentari più variate. Quanto alle sue caratteristiche, le lesioni del colletto dentale sono relativamente più frequenti in rapporto al grado di usura delle superfici masticanti; riducendosi l'usura, compaiono più carie occlusali. La patologia parodontale antica si riflette essenzialmente nella perdita precoce dei denti per il continuo trauma masticatorio e nell'usura del tavolato occlusale, specie dei molari, per l'attività molitoria dei movimenti mandibolari legata al tipo di alimentazione con cibi duri e farine grossolane. Delle altre patologie dentarie merita un accenno la disodontiasi del terzo molare, in quanto in rapporto con la filogenesi umana: la sua incidenza aumenta di pari passo con la riduzione evolutiva dello scheletro facciale anteriore e la progressiva perdita di importanza della funzione masticatoria su quella fonatoria.

 

Mesopotamia

Nel 1904 Felix van Oefele rinvenne a Ninive, nella biblioteca di Assurbanipal (668-626 a.C.), il testo in caratteri cuneiformi più antico (lo si data al II millennio a.C.), in cui si fa riferimento all'origine parassitaria della carie dentale: il verme generato dalla palude geme davanti a Shamash e lo supplica per il suo sostentamento:

"Sollevami e fammi abitare tra i denti e le gengive!

Succhierò il sangue dai denti e rosicchierò le gengive."

Dall'epoca dei Sumeri questa convinzione ha percorso i secoli fino a giungere quasi a noi (sec. XVIII d.C.), ritrovandosi in pressoché tutte le culture. E se vermi erano la causa di dolore dentale, vermi e insetti erano contenuti nei rimedi che i medici sumeri e poi babilonesi e assiri propinavano per la cura, oltre all'estrazione dei denti stessi. In una lettera, il medico di corte del re assiro Essarhaddon (681-669 a.C.), risponde alle domande del sovrano riguardo alla malattia che ha colpito il principe ereditario: "L'infiammazione da cui sono colpiti la testa, le mani e i piedi è dovuta ai denti. Estratti i denti, egli si riprenderà." Lo stato dei denti era patognomonico dell'origine e del decorso della malattia; alcune tavolette della biblioteca di Assurbanipal riportano alcune indicazioni:

Se egli digrigna i denti, la malattia durerà a lungo.

Se egli digrigna i denti continuamente e il viso è freddo, egli ha contratto una malattia inviatagli dalla dea Ishtar.

Perciò i denti avevano un certo valore e la stele di Hammurabi (1792-1750 a.C.) riporta le pene conseguenti:

legge 200: se qualcuno rompe un dente ad un suo pari, subirà la stessa sorte

legge 201: se qualcuno rompe un dente di un inferiore, gli sarà comminata una multa di un terzo di una mina d'argento

La cura personale dei denti era praticata: a Tepe Gawra, distante circa 30 km da Ninive, è stato rinvenuto un set da toeletta comprendente anche uno strumento per la pulizia dentale finemente lavorato e un cucchiaio odontoiatrico. Dio Edin Mugi (2400 a.C.), è il nome del più antico dentista assiro babilonese a noi noto.

 

Medio Oriente

Dell'oreficeria fenicia, conosciuta in tutto il Mediterraneo, fanno parte anche alcuni lavori di protesi dentaria. Nel corso di una campagna di scavi effettuata in una necropoli presso Sidone, Charles Gaillardot nel 1862 rinvenne una parte di mandibola (risalente al 400 a.C.), appartenente ad una donna, in cui i canini e gli incisivi laterali reggevano, per mezzo di fili d'oro, i due incisivi centrali; questi erano di un altro individuo, applicati appunto in sostituzione di quelli mancanti. Sempre a Sidone, nel 1901, fu rinvenuta una mandibola del 500 a.C. in cui i denti anteriori erano tra loro legati con del filo d'oro. Una tecnica di splintaggio già rinvenuta nelle tombe egizie, che dimostra quanto stretti fossero i rapporti tra le civiltà dell'area. E alle cure di medici fenici o greci si affidavano gli Ebrei, che consideravano la rottura di un dente un evento tanto grave da dover concedere la libertà ai propri servi in caso di un danno simile. Le prescrizioni in tema di odontoiatria sono contenute nel Talmud, ma sono strettamente legate a pratiche e obblighi religiosi, specialmente per non violare il rispetto del sabato. Indirettamente siamo a conoscenza dell'esistenza di protesi per la sostituzione di singoli elementi, ma solo in donne; l'estrazione dei denti era temuta; la perdita dei denti equivaleva ad infermità, la dentatura sana era motivo di bellezza e la sua completezza requisito indispensabile per accedere alla casta sacerdotale. Alcuni accorgimenti o prescrizioni erano ritenute efficaci contro i problemi orali: per l'igiene, masticare e sputare milza; per le gengive infiammate, il vino e l'aceto, questo però in modica quantità in quanto "dannoso per i denti come il fumo per gli occhi"; per il mal di denti, i succhi di frutta aspri.

 

Egitto

Il visitatore interessato può ammirare nel salone d'ingresso del Museo Egizio del Cairo la tavola lignea raffigurante Hesi-Re "Capo dei dentisti e dei medici", la cui tomba fu scoperta da Junker nel 1927 nei dintorni di Giza; è il più antico dentista di cui si abbia notizia (3000 a.C.). Ma, al di là del titolo attribuito al personaggio e nonostante nell'Antico Egitto esistesse un corpo medico specialistico di dentisti, è logico chiedersi cosa questi fossero in grado di fare, dal momento che i testi medici dell'epoca in nostro possesso forniscono poche indicazioni sulla patologia dell'apparato stomatognatico. Per alcuni studiosi, l'analisi delle mummie fa propendere che in quell'epoca non venissero di fatto praticate cure dentarie, almeno nel senso che intendiamo modernamente. Ad ogni modo, la cura dei denti era distinta dagli altri trattamenti medici e chi la praticava era ben identificato: nella stele ordinata dal faraone Sahura in regalo al suo medico Ny-Ankh-Sekhmet compare alla base una piccola figura, Men-Kaoure-Ankh, l'"uomo dei denti". Il mal di denti era imputato all'azione distruttiva del verme fenet. Carie e ascessi alveolari, rari nel periodo predinastico, quando i denti erano soliti cadere in età precoce, si diffusero nelle classi agiate a partire dalla IV Dinastia. Un illustre paziente e martire del mal di denti fu il faraone Amenophis III. In seguito, lentamente, si estesero a tutti i ceti sociali, specie nel periodo della decadenza. Tale fatto è direttamente collegato all'igiene alimentare: un'alimentazione più abbondante, qualitativamente migliore, con più cibi cotti, ha favorito la diffusione della carie fra i ceti poveri. Invece l'usura delle superfici masticanti è stata osservata in tutte le classi sociali fino dalle epoche più antiche. Il pane infatti, confezionato con farina grossolana, conteneva anche polveri minerali. L'usura precoce delle corone, specie dei premolari, portava rapidamente alla scopertura della camera pulpare; da qui la formazione di ascessi alveolari con tragitti fistolosi di notevole gravità e coinvolgimento di strutture adiacenti. L'osservazione di numerosi fori sui mascellari di mummie ha portato alcuni ad ipotizzare l'esecuzione di interventi di drenaggio, ipotesi decisamente confutata dal Leca. In effetti, a parte due strumenti conservati presso il museo di Lipsia, di cui non se conosce l'impiego, non abbiamo citazione alcuna della strumentazione chirurgica odontoiatrica e il bassorilievo di Kôm-Ombo, di epoca tolemaica, raffigurante un variegato strumentario , non aggiunge certezze sull'impiego dello stesso. Dei rimedi contro la carie (benut, tradotta anche ulcera del dente), è ricco il papiro Ebers (XVIII Dinastia, 1550 a.C.), una sorta di enciclopedia medica in cui l'autore ha inserito frammenti di opere più antiche. Non è stato mai rinvenuto alcun materiale di otturazione; una specie di mistura di resina e malachite possedeva una durata limitata. L'efficacia di tali otturazioni provvisorie, apparentemente non precedute da altre manovre di rimozione del tessuto cariato, non doveva essere particolarmente brillante. Il papiro Ebers riporta infatti diverse ricette, per preparare paste a base di farina di frumento, ocra e miele. Ingredienti simili vengono indicati anche nella preparazione di miscugli atti ad essere applicati su elementi parodontosici o per il rafforzamento delle gengive in caso di piorrea con perdita di elementi dentari. In alcuni di questi medicamenti è presente il solfato di rame, che possiede azione astringente e antibatterica. Ecco di seguito alcuni esempi: "Inizio dei rimedi per consolidare un dente: farina di mimi 1; terra di Nubia 1; miele 1; ridurre il tutto in un'unica massa con cui si otturerà il dente (Eb. n.739); altro rimedio: polvere di macina; terra di Nubia 1, miele 1; se ne otturerà il dente (Eb.n.740); altro rimedio: resina di terebinto 1; terra di Nubia 1; collirio verde 1; amalgamare ed applicare sul dente (Eb. n.743); altro rimedio per far scomparire la distruzione causata dall'ulcera dei denti: cinnamomo 1, gomma 1, miele 1, olio 1. Medicare con il prodotto ottenuto (Eb. n. 563) Per l'igiene dentaria era indicato un masticatorio, il pan, a base di "polpa di datteri (?), birra dolce 1, piuma di Thot 1. Da masticare e quindi sputare " (Eb. n.745), secondo alcuni accreditato di poteri antisettici e come scialogogo. I fastidi della dentizione venivano trattati mediante l'ingestione di topi cotti, scorticati, i cui resti sono stati rinvenuti in mummie di bambini del periodo predinastico; rimedio peraltro comune ad altri popoli antichi, già adottato da Dioscoride. Il papiro Ebers ci riporta anche rimedi sotto forma di paste o colluttori per le malattie della lingua, peraltro non meglio identificate. Alcune prescrizioni erano sicuramente impegnative: Altro rimedio per curare una lingua malata: resina di terebinto 1; cumino 1; terra di Nubia 1; grasso d'oca 1; miele 1; acqua 1. Masticare per nove giorni (Eb.n.700) Non abbiamo conoscenza della costruzione di protesi dentarie. Tuttavia sono riportati cinque casi in cui i denti espulsi sono stati recuperati e collegati con fili d'oro o d'argento ai restanti. Ma alcuni studiosi ipotizzano per tali reperti un utilizzo come amuleti, mentre per altri semplicemente fanno parte della pratiche di conservazione dei corpi in cui gli Egizi erano maestri. Fonte di tali discussioni sono i due molari trovati da Hermann Junker nel 1914 a Gizeh e risalenti al 2500 a.C. e i tre incisivi rinvenuti da Shafik Farid nel 1952, in cui l'incisivo sostituito presenta una radice intera, segno evidente per alcuni di un impiego post mortem. Il papiro Edwin Smith, coevo del precedente, è invece un trattato di patologia chirurgica, in cui ritroviamo la magistrale descrizione delle modalità di riduzione della lussazione mandibolare, come ancora oggi possiamo leggerla sui nostri testi: "Istruzioni per la lussazione del mascellare inferiore: Se devi trattare un uomo con la mandibola dislocata, così che la sua bocca rimane aperta senza potersi richiudere, devi appoggiare i tuoi due pollici all'estremità dei due rami della sua mandibola all'interno della bocca mentre le altre dita faranno presa sotto il mento, quindi devi spingere in basso e indietro i due rami della mandibola, finché essi non siano rientrati nella loro sede. Nello stesso tempo devi dire: - Un uomo con la mandibola lussata, ecco la malattia che tratterò - ..." (Sm. n.25). Ancora il papiro Edwin Smith ci informa che le ferite del labbro superiore erano suturate e trattate con l'applicazione di carne fresca (Sm. n.26). Seguono esposizioni sul come trattare le fratture composte e comminute della mascella e la perforazione dello zigomo. Un verme compare come agente eziologico delle nevralgie dentali: nel papiro Anastasi IV leggiamo che: "Con me abita uno scriba contabile. Tutti i muscoli della sua faccia si contraggono, soffre all'occhio, i vermi rodono i suoi denti." Curiosamente i dentisti egizi non sembrano essersi mai preoccupati della rimozione del tartaro; molti crani mostrano abbondanti depositi, con conseguenti lesioni parodontali profonde. Non sono stati rinvenuti utensili atti allo scopo, e nemmeno spazzolini da denti o qualcosa di simile.

 

Grecia

Nel V secolo a.C., al tempo del massimo sviluppo delle scienze naturali e della medicina, intese nel loro primitivo approccio razionalistico, che ebbero a Cos e Cnido i centri più fulgidi, la terapia dentaria consisteva essenzialmente nella cauterizzazione delle gengive, nell'avulsione dei denti e nell'uso di masticatori, colluttori, sciacqui e gargarismi derivati dalle farmacopee precedenti. Contemporaneamente, ad Epidauro, anche la medicina sacerdotale trattava le malattie dentali, attraverso un complicato procedimento di rilassamento iniziatico, cui qualche successo dobbiamo riconoscere, almeno in forza delle tavolette di pietra con l'effigie della parte guarita del corpo, lasciate al tempio come offerta votiva. Sempre nei templi erano esposte le effigi o copie degli strumenti chirurgici in uso. Celio Aureliano ricorda che nel tempio di Apollo a Delfi si trovava un esemplare in piombo dell'odontagra, la pinza per estrazioni. In realtà quelle di uso corrente erano di ferro, molto meno duttili! Con l'avvento di Ippocrate di Cos (460 - 377;359), anche la patologia dentaria venne osservata secondo uno spirito razionale, da cui derivano metodi di trattamento. Nell'opuscolo Della Dentizione, anche se in parte vengono raccolte credenze popolari relative all'eruzione dentaria, si legge che "I denti da latte cadono generalmente intorno ai sette anni, gli altri sono permanenti e crescono con la persona, a meno che non siano distrutti da qualche malattia." Nel libro Delle Affezioni Ippocrate osserva: " In caso di mal di denti, se il dente è cariato, deve esser tolto, mentre se è solo dolente è necessario essiccarlo con la cauterizzazione. Masticare fa bene, in quanto il dolore deriva dal muco che si è insinuato sotto la radice dei denti. Il muco ed il cibo cariano quei denti che già di per sé sono deboli e mal fissati nella bocca." L'indicazione all'estrazione era assoluta quando un dente era disarticolato, per modo che l'operazione presentasse meno pericoli, come l'emorragia conseguente a manovre distruttive o gli ascessi e alveoliti postestrattive. Apparentemente, era il medico generico che eseguiva qualunque tipo di trattamento odontoiatrico, prassi descritta anche da Aristotele un secolo dopo. La pratica dell'igiene orale prendeva piede lentamente. Un discepolo di Aristotele, Teofrasto (morto nel 287 a.C.), riferisce che radersi frequentemente e avere denti bianchi è considerata una virtù; il medico ateniese Diocle di Caristo, contemporaneo di Aristotele, indica che strofinare ogni mattina denti e gengive con le dita con polvere di menta, all'interno e all'esterno, serve a rimuovere le particelle di cibo residuo. Ma invero solo con la dominazione romana tali pratiche divennero abituali.

 

Etruria

Per dirla con Sudhoff, storico della medicina, "non esiste sulla terra una regione che possiede per la storia dell'odontoiatria un interesse maggiore dell'Etruria". La ragione di tale affermazione è legata essenzialmente al grado elevatissimo raggiunto dalla odontotecnica etrusca nel confezionamento di protesi dentarie. Maestri abilissimi nella metallurgia, inimitabili conoscitori della tecnica di granulazione dell'oro, sia per la lavorazione che per la funzione gli Etruschi anticipano (una delle protesi più antiche sembra datare al IX sec. a.C.), e superano Fenici e Greci: a differenza di questi, essi impiegano benderelle o anelli saldati tra loro al posto dei fili, oppure strisce o lamine sottili passanti a spirale dal lato vestibolare a quello linguale per stabilizzare i denti vacillanti, o ancora una lega d'oro quasi pura tirata in lamina grossa e robusta. Le protesi sostengono i denti mancanti fissandoli tra le lamine con perni ribattuti alla perfezione. Le lavorazioni sono ben rifinite, levigate e senza graffiature di sorta. Le saldature di titolo così elevato che dopo 2500 anni sotto terra nemmeno con la lente si rilevano differenze. La stabilità in bocca tanto buona da ritrovarsi alcune protesi ancora in situ nel cranio del committente. Questo indica anche uno studio preliminare accurato della situazione orale del paziente, una diagnosi e un piano di cura adeguato, che tiene conto delle caratteristiche degli elementi contigui. Si tratta di apparecchi con finalità riabilitative e non meramente estetiche. Appare anche evidente che buona parte del lavoro doveva essere fatto direttamente in bocca, sia per le misure che per l'adattamento finale delle lamine auree ai denti di supporto, come pure per la forma e dimensioni degli elementi di sostituzione, in genere di provenienza animale. La necessità di ricorrere alle sostituzioni protesiche derivava essenzialmente da malattia parodontale. Alla pari degli Egizi, i crani etruschi mostrano bassa incidenza di carie e notevoli fenomeni di usura del tavolato occlusale, con riduzione dell'osso alveolare e dei tessuti di sostegno. Anche presso gli Etruschi la carie distingueva i ceti più abbienti, e i ricchi avevano a disposizione un'alimentazione più varia e raffinata. Per questo tenevano anche al loro aspetto e all'igiene del cavo orale: in alcune tombe sono stati rinvenuti degli stuzzicadenti. Altri oggetti facevano parte dello strumentario specifico del dentista etrusco: spatole, specilli, cauteri, odontagra e rizagra (o pinza per radici). Una di queste pinze compare raffigurata su di una moneta databile al 300 a.C.

 

Roma

Alla metà del V secolo a.C., mentre le città dell'Etruria risplendevano all'apice della loro potenza, nonostante il lento crepuscolo fosse già iniziato, con la perdita delle città costiere tirreniche , dell'Elba e della Corsica ad opera dei greci di Siracusa, e mentre Veio e Roma avevano già iniziato a fronteggiarsi per la supremazia nel Lazio, i Romani, costituita la repubblica da pochi decenni, promulgavano, stretti da enormi necessità, le restrittive Leggi delle XII tavole. Una di queste indirettamente ci informa che, nonostante le difficoltà, anche in quei tempi esistevano soggetti benestanti che potevano permettersi cure costose, da cui non venivano separati nemmeno nella tomba: " Si dentes alicuius aureo essent iuncti, cum ossibus id ipsum urere aut sepelire jus est." ; ma quello era il solo oro che un ricco poteva tenersi stretto nell'aldilà: "Neve aurem addito, at cui auro dentes iuncti sunt, ast im cum illo sepeliet eretve ne fraudo esto." Ma chi legava i denti con l'oro a Roma? I dentisti erano comunque etruschi, o educati alla scuola etrusca. Anche dopo l'asservimento dell'Etruria, l'odontotecnica romana proseguì sullo stile antico, e non si può dire che fece molti progressi, arrivando ad applicare anche denti in legno. Ad ogni buon conto la disposizione di legge ci informa che i Romani, ai tempi nei quali Plinio il vecchio affermava non ci fossero né medici né medicina, non furono privi di un'assistenza specialistica come quella odontoiatrico-protesica. Invero l'affermazione di Plinio va correttamente interpretata: la medicina romana dei primi secoli aveva caratteristiche teurgiche, sacerdotali, magiche e patriarcali, e chi la praticava erano autodidatti, come coloro che che si dilettavano nella raccolta e nell'uso delle erbe officinali, o quelli che per necessità dovevano affrontare traumi, ferite o parti. Le conoscenze dei Romani in campo medico erano la conseguenza di esperienze empiriche (o di superstizioni religiose). Celso ricorda infatti: "Ne inter initia quidem ad istis quaestionibus deductam esse medicinam, sed ab experimentis." Con l'arrivo dei primi medici greci a Roma, intorno al 218 a.C., la medicina romana progredì secondo lo stile razionale dello spirito ippocratico. Ma trovò ancora maggior vigore seguendo i dettami della scuola alessandrina di Erofilo ed Erasistrato, anatomisti e patologi, che schiusero le porte alla terapia medica. Ancora Celso afferma perentorio: " Rationalem quidem puto medicinam esse debere: instrui vero ab evidentibus causis; obscuris omnibus, non a cognitione artificis, sed ab ipsa arte, reiectis." Si giunse quindi ad un gran numero di praticanti l'arte medica e chirurgica, secondo diverse scuole e linee di pensiero, fino ad avere specialisti in particolari settori o in singole prestazioni, così invisi a Cicerone: "An tu existimas, cum esset Hippocrates, ille Cous, fuisse tum alios medicos qui morbis, alios qui vulneribus, alios qui oculis moderentur?", e poi derisi da Marziale : "Eximit aut refecit dentem Cascellius aegrum, infestus oculis uris, Hygine, pilos; non secat, et tallit stillantes Fannius uvam. Tristia saxorum stigmata delet Eros, enterocelarum fertur Polidarius Hermes." Tuttavia presso i Romani l'odontoiatria rimase praticata dai medici, in quanto le malattie della bocca e dei denti non erano sufficientemente differenziate da quelle di altri distretti corporei. Le conoscenze ed informazioni a noi giunte in materia di odontoiatria le dobbiamo in massima parte ad Aulo Cornelio Celso e al suo De Medicina. E non è poco, se, per dirla con Angiolo Del Lungo: "Con Celso comincia, con Celso ha termine, e forse in lui solo si concentra quel breve e splendido periodo durante il quale la medicina Romana si presentò in quella forma dignitosa che si addice a questa nobilissima fra le scienze." Celso non fu medico, ma un enciclopedico sulla scia di Catone e Varrone, e tuttavia fu il primo che nella medicina, scienza di esclusivo appannaggio dei Greci, trasfuse l'esperienza personale insieme alle fonti greche di cui era a conoscenza, e scrisse un trattato in cui, "oltre la semplicità, correttezza e precisione della lingua e dello stile sono associate notizie e considerazioni generali, talune delle quali non hanno ancora perduto la loro attualità" (C.Marchesi). In tema di odontoiatria, il già citato capitolo nono del libro sesto del De Medicina raccoglie varie indicazioni e ricette contro il mal di denti. Celso consiglia anzitutto di masticare poco cibo e assolutamente morbido, e dopo aver applicato sulla guancia il vapore dell'acqua calda con una spugna, stendere un impacco intriso di olio di ligustro o di iris, fasciando il tutto con la lana e tenendo il capo coperto: "Extrinsecus admovendus per spongiam vapor aquae calidae, imponendumque ceratum ex cyprinum aut irinum factum, lanaque id comprehendendum, caputque velandum, est." È bene sciacquare la bocca con colluttori tiepidi a base di vino o aceto, la cui composizione è quanto mai varia. Particolarmente interessante risulta l'avvertenza di non ingerire tali preparati, in specie quelli contenenti la radice del cinquefoglie ( probabilmente una delle Rosacee, Potentilla Reptans, da cui in erboristeria si ricava ancora un decotto con potere astringente), e ancora di più la radice del giusquiamo (Hyosciamus Niger, che contiene l'alcaloide scopolamina: la blanda azione anestetica locale può essere superata dall'azione atropinica se ingerita, con sedazione generale fino alla depressione respiratoria grave e coma. In Liguria il giusquiamo è chiamato anche "erba per la carie"!), e infine la corteccia non tanto secca del papavero (papaveris non nimium aridi cortices), e la radice di mandragora. Il papavero (Papaver somniferum), originario dell'Asia Minore, era già conosciuto ai Sumeri, e la sua capsula contiene una mistura di alcaloidi naturali stupefacenti, tra cui morfina e codeina. La mandragora (Mandragora officinarum), è una Solanacea usata ancora nel medioevo come narcotico prima di interventi chirurgici. Sempre in vino annacquato si mette un decotto di scorza di radice di pioppo (Ex populo quoque alba cortex radicis in hunc usum in vino mixto recte coquitur), forse sfruttando l'azione analgesica dell'acido acetilsalicilico? Meno efficaci ci sembrano la raschiatura di corno di cervo in aceto (in aceto cornu cervini ramentum), la nepitella unita ad una resina (nepeta cum teda pingui), o la colatura di fico grasso cotto nel vino o nell'aceto e miele (ficus item pinguis vel in mulso,vel in aceto et melle, ex quibus, quum ficus decocta est, is humor percolatur). Anche se Celso non parla di materiali di otturazione come noi li intendiamo, tuttavia fornisce alcuni suggerimenti per curare i denti sofferenti: un batuffolo di lana imbevuto in olio caldo con cui detergere la lesione cariosa (specillum quoque lana involutum in calidum oleum demittitur, eoque ipse dens fovetur), cataplasmi di scorza di melagrana con pari porzioni di galla e scorza di pino, minio e acqua piovana; oppure di opopònaco, lacrima di papavero, finocchio porcino, uva taminia priva di semi. Veramente interessante è pure l'indicazione di applicare un impacco di lana intriso di mirra, cardamomo, zafferano, piretro e fichi triturati sulla spalla dal lato del dente dolente: alla scapola se il dente appartiene all'arcata superiore, al petto se dell'arcata inferiore. Forse che Celso avesse conoscenza degli attuali trigger points? Ad ogni modo, se i rimedi fin qui descritti non bastassero, poiché il dente è francamente cariato (si vero exesus est dens), ecco che il nostro enumera altre ricette più efficaci per lenire il dolore, prima dell'eventuale estrazione, attraverso la preparazione di misture da applicare sul dente; la composizione di Era: una parte di lacrima di papavero, due di pepe, dieci di solfato di rame pestato e inglobato nel galbano (resina di ombrellifera originaria della Siria); quella di Menemaco, indicata per i molari: una parte di zafferano, quattro di cardamomo, fuliggine d'incenso, fichi tagliuzzati, piretro, e otto parti di senape. Altri mescolano pepe, piretro, elaterio, con scaglie di allume, zolfo, bitume, lacrima di papavero, bacche di lauro e senape. Tutti questi rimedi sembrano rivolti a provocare la necrosi della polpa dentaria per via chimica, allo stesso modo in cui ancor'oggi, in particolari casi, ricorriamo all'uso di paste arsenicali. Ma se infine il dente deve essere tolto, allora lo si può far cadere a pezzi introducendo nella cavità cariosa il seme del pepe privo della scorza, o la bacca dell'edera, o un impiastro basato sull'aculeo carbonizzato, polverizzato e impastato con resina della Pastinaca (Dasyatis pastinaca, una specie di razza comune nel Mediterraneo, il cui veleno agisce prevalentemente sul muscolo cardiaco provocando aritmia e arresto, oltre a severi disturbi respiratori, urinari e nervosi. Effetti questi probabilmente scongiurati dalla preparazione!). Meno drastico allora è l'allume di rocca avvolto in un fiocchetto di lana, che calma il dolore senza distruggere il dente. Al termine del capitolo, Celso non esita a ricordare che, se i precedenti sono i rimedi ammessi dai medici, esistono anche soluzioni derivate dalla medicina patriarcale, quella cioè dei primordi di Roma (sed agrestium experimento cognitum est); il rimedio del contadino: raccoglie la menta selvatica completa di radici in un catino pieno d'acqua, in cui getta pietre roventi, e ben coperto aspira a bocca aperta il vapore che si leva. Questo provoca una profusa sudorazione e l'umore refluisce dalla bocca (et per os continens pituita defluit), sicché si sta bene per un anno almeno! Una affermazione davvero singolare quest'ultima, forse anch'essa di derivazione popolare, perché probabilmente inscindibile dalla procedura stessa: certo una robusta inalazione con effluvi di menta poteva dar sollievo a forme sinusitiche, anche se non di sicura provenienza odontogena.

La procedura chirurgica delle estrazioni dentarie viene trattata nel capitolo dodicesimo del libro settimo. Quando i medicamenti non hanno risolto il dolore e si pone l'indicazione all'estrazione, si deve iniziare con lo scollamento della gengiva (circumradi debet, ut gingiva ab eo resolvatur ; è, in pratica, la nostra attuale sindesmotomia), e poi procedere con una delicata lussazione (eaque facienda, donec bene moveatur) : questo per non incorrere in fratture della mascella o lussazioni della mandibola! Quindi si afferra il dente con la mano, oppure con la tenaglia (forcipe), avendo cura, se il dente è cariato, di zepparlo con fili di lino o piombo, perché la corona non si spezzi nella presa (ne sub forcipe confringatur). La direzione di estrazione deve essere in asse con il dente (recta vero forceps ducendum est), per non incorrere in fratture dell'osso alveolare, che sono frequenti quando la corona residua è esigua e si spezza sotto l'azione delle branche. Segno patognomonico della frattura ossea è l'emorragia (ubi plus sanguinis profluit, scire licet aliquid ex osse fractum esse); bisogna allora rimuovere con una pinzetta il frammento osseo, anche incidendo la gengiva se necessario, prima che si instauri il trisma. E se questo è presente va risolto applicando un cataplasma caldo di farina e fichi per provocare la colliquazione e poi procedere con l'incisione gengivale. Anche lo scolo purulento è segno di frattura ossea (pus quoque multum profluens, ossis fractis nota est), e va trattato allo stesso modo, rimuovendo i sequestri e cruentando la parte (nonnumquam etiam, eo leso, fissura fit, quae eradi debet). Tutte queste manovre chirurgiche erano evidentemente prive di anestesia. In sede locale poteva essere impiegata la pietra di Menfi (carbonato di calcio), che cosparsa di aceto era usata per frizioni antalgiche, liberando acido carbonico. Ma forse il paziente poteva essere in parte sedato con l'uso di farmaci somministrati in pastiglie o bevande. Nel libro quinto, cap.XXV, Celso descrive alcune pillole che calmano i dolori e conciliano il sonno (anwduna); una di queste, più efficace per il sonno, ma deleteria per lo stomaco (stomacho peius, ad somnum valentius), si compone di mandragora, giusquiamo e semi di sedano. Anche Plinio afferma chiaramente: "Bibitur ante sectiones punctionesque ne sentiantur"; la bevanda conteneva succo di mandragora e la dose media era un ciato (circa 40 ml.) Per quanto attiene alla cura della parodontopatia, Celso raccomanda la cauterizzazione della gengiva per sfioramento (ut attingat leviter, non insidat), quindi un'unzione con miele e lavaggio con vino mielato, infine un trattatamento con astringenti (arida medicamenta infrianda sunt). Ma se alcuni elementi vacillano, vanno solidarizzati a quelli stabili con fili d'oro (auro cum iis qui bene haerent vinciendi sunt).

Non manca neppure un'indicazione ortodontica: quando un dente erompe e il deciduo resta in sede, questo va estratto; e tutti i giorni con il dito si tiene sospinto il permanente finchè entra nella sua sede (quotidie digito adurgendus, donec ad iustam magnitudinem perveniat). I disturbi associati alla dentizione dei fanciulli sono ben conosciuti, e raggiungono l'acme con l'eruzione dei canini (Proprie etiam dentientes, gingivarum exulcerationes, febriculae, interdum distensiones nervorum, alvi deiectiones, maximeque caninis dentibus orientibus, male habent) (Cap.I, libro II) L'anatomia dentale è rapidamente descritta nel primo capitolo dell'ottavo libro, subito dopo quella delle ossa mascellari. Dopo aver ricordato che i Greci chiamano tomici (tomeis) gli incisivi, Celso accomuna premolari e molari come cinque denti mascellari posti distalmente ai canini (ultra quos utrimque fere maxillares quini sunt), distinguendo i tuttavia i premolari per la presenza di una sola radice (ex his primores singulis radicibus nituntur). Un successivo apporto alle conoscenze anatomiche si deve a Galeno, che nel libro XIV, cap. III dei Procedimenti Anatomici descrive i nervi alveolari nella trattazione completa sul trigemino.

Una precisazione va fatta in tema di protesi. Come riferito, Celso ne parla in termini estremamente conservativi, in quanto sostiene la necessità di stabilizzare denti parodontosici. Forse perché l'allestimento di protesi non era di competenza del medico, o comunque solo in parte. Altri, artigiani od orafi che fossero, provvedevano alla modellazione delle lamine e dei fili, come pure dei denti finti, di cui evidentemente si faceva commercio, come afferma Marziale: " Thais habet nigros, niveos Laecania dentes. Quae ratio est? Emptes haec habet, illa suos." E in un altro passo: "Dentibus atque comis - nec pudet - uteris emptis. Quid faces oculo, Laela, non emitur." In un ennesimo divertente epigramma Marziale fa parlare un….dentifricio: " Che vuoi da me? Lascia che sia una giovine ad usarmi! Non sono abituato a pulire denti comprati." Le pratiche di igiene presso i Romani includevano infatti a pieno titolo anche la pulizia della bocca e dei denti. Le preparazioni dentifrice più erano elaborate più erano considerate efficaci. Plinio ne consiglia una composta da denti calcinati di cane mescolati con miele e un'altra a base di pietra pomice polverizzata. Scribonio Largo riferisce che Messalina impiegava una composizione a base di corno di cervo bruciato, mastice di Chio e sale ammoniacale. Ottavia prediligeva invece polvere di rose essiccate al sole, polvere di vetro bianco e nardo indiano. Per ripristinare il colore originale si usava frizionare i denti con il nitrum, probabilmente carbonato di potassio o carbonato di sodio. E per profumare l'alito si usava anche masticare verbena, giusquiamo e piantaggine. A tal proposito Dioscoride consigliava di tenere sotto la lingua una piccola foglia di nardo, o piccoli frammenti di malobrasto, di agalloco o di mirra. E che dire dell'abitudine dei patrizi romani, che durante la cena offrivano agli ospiti anche stuzzicadenti di metallo decorati, se non d'oro, che essi potevano conservare? Ed era considerata cosa normale pulirsi i denti tra una portata e l'altra.

Come già detto, l'odontoiatria romana, pur annoverando alcuni specialisti ad essa o a parti di essa solo dediti, specie in epoca imperiale (si veda ad esempio l'epigrafe tombale del greco Celerino, con tanto di pinza e spatola per scollare la gengiva, incise sul marmo), non fu tuttavia disgiunta dalla pratica medica e chirurgica complessiva. Questo è in accordo con la visione celsiana dell'unitarietà della medicina: " Omnes medicinae partes ita innexae sunt, ut ex toto separari non possint." E l'abbondanza di mezzi e di ingegno ad essa profusi dimostrano come l'attenzione verso la salute orale si innestava a pieno titolo nella cura complessiva dell'individuo, per raggiungere l'intendimento della massima di Marziale: "Non est vivere sed valere vita est." Aforisma questo che affonda le sue radici nei primordi della storia di Roma, ancora nella legge delle XII tavole, che recita: "Salus populi suprema lex esto."

 

Note

1) Nat.Hist., XX, XXXIII

2) De Oratore, III, 33

3) Epigrammata, X, 56

4) Sull'impiego della mandragola così riferisce il Nuland: La mandragola, o mandragora, appartiene all'umile famiglia delle patate. La pianta ha uno stelo corto con radice spesso biforcata e frutto simile a una bacca arancione, a volte detto mela. L'effetto narcotizzante deriva dal fatto che dalla radice, e in misura minore dalla mela e dalle foglie, si può estrarre un composto chimico della classe degli alcaloidi della belladonna. Il fatto che la radice biforcata, con un po' di immaginazione, possa far pensare alla metà inferiore di un corpo umano raffigurato con tutte le sue curve indusse a ritenere che dalla pianta si ricavasse una pozione d'amore che accresceva la fertilità. (…) La documentazione sull'uso della mandragola è addirittura precedente ad Omero. (…) Gli studiosi del Vecchio Testamento hanno ipotizzato che Lia, moglie del patriarca Giacobbe, abbia dato alla sorella Rachele della mandragola raccolta da suo figlio Ruben, in cambio del permesso di avere con sé il marito, che divideva con la sorella, per la notte di estasi nella quale concepì il figlio Issachar. La verità è forse un'altra, basata sull'azione farmacologia della sostanza; non è impossibile che i favori di Giacobbe siano stati acquistati con il narcotico, infatti nella Genesi 30:16, Lia dice al marito:" Entra da me, perché ti ho accaparrato con le mandragole di mio figlio." (…) La traduzione della Historia Naturalis di Plinio (del 77 d.C.), fatta da Philemon Holland, contiene la seguente dichiarazione:" È comune berlo [il succo di mandragola]…prima che si tagli, si cauterizzi, si perfori o si incida un arto, per annullare la sensibilità e il dolore di tali cure estreme. È sufficiente per alcuni annusare la mandragola per sprofondare nel sonno, per tutta la durata dell'intervento". E negli scritti di Pedacio Dioscoride, chirurgo greco dell'esercito di Nerone, si trova la seguente descrizione dell'uso della mandragola: "Ma della pianta staminifera e bianca che alcuni hanno nominato Norione, le foglie sono più grandi, bianche, ampie e lisce come quelle della barbabietola, e nel colore assomigliano allo zafferano, con odore dolciastro piuttosto forte; quando i pastori le mangiano, vengono colti dal sonno…Usarne un ciato per chi non riesce a dormire, o prova intenso dolore, o su chi subisce interventi o cauterizzazioni e non si vuole che soffra…Perché non accuserà dolore, in quanto sopraffatto da un sonno di morte: le mele, se annusate o mangiate, sono soporifere, e lo stesso per il succo che se ne ricava." L'opera di Dioscoride, De materia medica, fonte di quasi ogni conoscenza botanica per un millennio e mezzo, è uno dei classici della letteratura medica e, per la bellezza dei manoscritti in cui venne variamente trasposta, è anche un classico della storia dell'arte. Dioscoride fu anche il primo ad impiegare la parola "anestesia": egli descrive varie pozioni alcoliche per indurla. Raccomanda, ad esempio, di somministrare una dose di due once di vino forte a quei pazienti che devono essere operati di calcoli o che devono essere cauterizzati.

5) Nat. Hist. XXV, 94. Vedi anche la nota precedente.

6) Epigrammata, V, 43

7) Epigrammata, XII, 23

8) De Compositione Medicamentorum

9) De Materia Medica, si veda la nota n°4

 

Bibliografia:

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Sherwin B. Nuland: I figli di Ippocrate. A. Mondatori Ed. 1992